
Coaching: Qui si forma l’allenatore dei manager
IL SOLE 24 ORE – 9 dicembre 2006
Coaching: Qui si forma l’allenatore dei manager
Coach non ci si inventa, come sembrano fare coloro che riciclano una precedente professionalità di trainer del comportamento o di counselor e si propongono con questa nuova veste.
Lo scriveva anche John Whitmore nel suo famoso libro “Coaching” pubblicato in Italia da Sperling&Kupfer: “Non intendiamo semplicemente una tecnica escogitata lì per lì e rigorosamente applicata in determinate circostanze: si tratta piuttosto di un modo di guidare e gestire le persone, un modo di pensare, e quindi anche un modo di essere”.
Lo ribadisce Silvia Tassarotti, presidente della Federazione italiana coach, “in un momento critico per il trainer dei capi, perché è un mestiere diventato molto di moda e che si sta diffondendo sempre più. Proprio per questo serve fare chiarezza”. Se ne discuterà il 28 novembre alla quarta conferenza sul coaching organizzata dalla Fic in collaborazione con Aidp, a Milano, al palazzo delle Stelline.
Per l’occasione saranno riunite le nove scuole di formazione italiane al coaching, alcune delle quali hanno già ottenuto la certificazione Icf (International coach federation), mentre altre lo stanno facendo.
Sarà l’occasione per misurarsi sulla formazione dei coach del futuro e sulle nuove frontiere di questa professione che spazia dal life, al personal, all’executive coaching.
E, come si augura Tassarotti, “presto speriamo di poter lavorare anche nelle scuole e nelle Università per l’orientamento al mondo del lavoro”. Ma non solo.
La conferenza sarà infatti anche l’occasione “per ribadire l’importanza della certificazione, che è un modo attraverso il quale distinguere chi prepara alla professione del coach ed è un coach da chi invece fa altro”, continua Tassarotti.
Di parere diverso è Gianfranco Goeta, fondatore di Scoa, che crede invece nel severo giudizio del mercato. “Le scuole sono poche, si contano sulle punta delle mani, così come sono poche le aziende che ingaggiano un coach. Quelle che lo fanno sono molto attente nella selezione. Anche chi ha una lunga esperienza viene testato e prima di prendere “in affidamento” un manager o un dipendente con alto potenziale, su cui l’azienda vuole investire, deve passare attraverso i raggi x dell’ufficio del personale e dei dirigenti”.
Nel mondo i coach sono circa 25mila mentre è praticamente impossibile determinare le dimensioni del mercato in Italia. “I coach liberi professionisti non superano il centinaio – dice Silvia Tassarotti – ma le nove scuole che abbiamo in Italia si stanno attrezzando per offrire alle imprese un numero maggiore di professionisti qualificati”. Proprio quest’anno, inoltre, partirà il master in Coaching, leadership e sviluppo delle risorse umane, organizzato dalla Federazione italiana coach e dall’Università europea di Roma, dove già da qualche anno esiste anche un’Accademia dei Coach, diretta da Marco Ricci.
“L’università in Italia ha la forza della legittimazione – commenta Goeta – e, anche se la collaborazione con il mondo accademico potrebbe rivelarsi interessante, il coaching non potrà mai diventare una disciplina di un corso di laurea. E’ un mestiere che comprende diverse professionalità e si impara grazie a una lunga esperienza.
Come nel medioevo la bottega era il luogo dove gli artigiani imparavano il mestiere, così per il coaching la bottega sono le scuole.
Terminata la parte teorica, i futuri coach prima si esercitano con i propri colleghi di corso e poi con dirigenti di aziende che si prestano a collaborare”.
Da figura nota all’interno delle multinazionali che rappresentano una fetta molto ristretta del tessuto industriale italiano, questa professione sta a poco a poco vincendo la diffidenza delle imprese medio piccole che in in un momento di forte competizione e incertezza hanno spostato il focus sulla preparazione del loro team.
Anche attraverso il coaching, un percorso che si può iniziare in corrispondenza di un avanzamento di carriera come è successo a Marco Feola che, promosso dalla sua azienda, la Saiwa, a direttore della supply chain ha ricevuto dall’ufficio del personale la proposta di iniziare un percorso di coaching. “E’ durato dieci mesi – racconta – durante i quali ho imparato a conoscere meglio me stesso e le mie potenzialità, ho rafforzato il mio stile di comunicazione con i collaboratori, ma anche con i superiori”.
Tutto è iniziato con un assessment finalizzato a un’autovalutazione delle proprie attitudini ed è proseguito con la definizione delle aree su cui lavorare e degli obiettivi da raggiungere. “In tutto questo cammino, il coach sembra non fare nulla perché non dà indicazioni ma sollecita a trovare le proprie risposte. E’ come una sorta di levatrice che tira fuori dal coachee le potenzialità più nascoste”.
In alcuni casi alle radici del coaching ci può essere la necessità di fermarsi e riflettere sulla strategia per andare avanti. Franco Godi, direttore generale e socio della Texno, azienda in provincia di Novara che produce tessuti tecnici per l’automotive e il medicale, è arrivato al coaching dopo vent’anni di lavoro. “Sono passato attraverso tutte le fasi del ciclo produttivo fino al commerciale, per poi ricoprire ruoli di responsabilità sempre più alti. A un certo punto è arrivato il momento di fermarmi e iniziare un lavoro che mi portasse a migliorare il posizionamento nel mio ruolo”.
Domande mirate, simulazioni di situazioni critiche, comunicazione molto diretta sono state il modo “per fare una sorta di outing liberatorio, svuotare il sacco dei problemi non risolti in azienda, individuare un modo per risolverli e sottolineare i lati positivi del lavoro svolto.
Tutto questo attraverso se stessi, perché il coach non è un consigliere che indica la strada o ha una bacchetta magica, ma aiuta a trovare la via d’uscita che è dentro ognuno di noi”.