
Coaching: l’ego di José può funzionare se condiviso
LA STAMPA – 24 febbraio 2009
Coaching: l’ego di José può funzionare se condiviso
Questa sfida di Champions é gia stata giocata, Italia-Inghilterra formato club vissuta nella testa di tutti quelli che scenderanno in campo.
Secondo Marco Valerio Ricci, psicologo che lavora con gli sportivi, molto di quel che succederà oggi e domani dipenderà dal film che i protagonisti si sono fatti “perché le sfide con i club inglesi hanno un passato che può condizionare”.
Gli inglesi ci spaventano?
“Purtroppo sì e a prescindere dalle forze chi gioca. Abbiamo un timore non poi così giustificato e le squadre italiane possono depotenziarsi, sgonfiarsi”.
Perché?
“Li vediamo come i padroni del calcio, sono stati i primi a farci i soldi veri, a trasformarlo in un business, si portano in campo anche la solidità della gestione. E noi abituati a coltivare polemiche interne, vedi il caso Panucci alla Roma, perdiamo di impatto”.
L’Inter ha un tecnico che viene da lì e ha un’alta considerazione di sé. Che succede con lui?
“Viene da lì appunto, dove in media gli allenatori hanno più peso e più rapporto personale con i giocatori. Guardate Ferguson e Wenger, le regole le fanno loro. L’ego di Mourinho può funzionare da motivatore però c’é il rischio corto circuito. Se quella visione non è realmente condivisa dagli interisti non reggerà davanti agli avversari”.
Che devono fare per evitare il condizionamento psicologico?
“Esistono delle tecniche: si può vivere una realtà parallela per esempio. L’impatto culturale dà agli inglesi molta forza, in qualche modo li temiamo. Serve prefigurarsi la partita in immagini reali, vive, con fasi precise in modo da recuperare una determinazione che annulli l’idea del “tanto so come va a finire.L’Inter ci é cascata più volte.Non serve presentarsi come imbattibili, ci vuole un lavoro più profondo. Senza esagerare e diventare sbruffoni, va costruito un autoconvicimento.”
Chi rischia di più?
“Sul piano del carattere la Roma. Si trova davanti un’azienda calcio. Una squadra che vuole fare
utili, che alleva i migliori giovani per rivenderli. Sono tutti motivati, cresciuti con la competizione interna. Una bestia dura, li devi mettere sotto con il gioco perché psicologicamente sono tostissimi.”
Lei ha lavorato con la nazionale di rugby, in quel caso l’autoconvincimento non ha funzionato?
“Lì si partiva da molto lontano, da un problema di livello, di gap che bloccherebbe anche i migliori. Abbiamo singoli straordinari e sul concetto di squadra e di staff che non ci siamo. Il calcio non ha questo problema, sta nell’élite e ne é consapevole. La tecnica della costruzione di una gara alternativa, pensata prima di essere giocata li potrebbe far sentire più forti.”